Commento sulla Sentenza del tribunale di Monza in merito al Consenso Informato
"CONSENSO INFORMATO", fino agli albori del terzo millennio, è stato definito dalla
dottrina "il diritto del paziente a ricevere una prestazione medica esatta".
Oggi, in forza dei nuovi indirizzi dottrinari e giurisprudenziali, non è più così, o meglio, non è solo così.
Infatti, non è sufficiente il raggiungimento della prestazione esatta, magari ineccepibile,
ma occorre che si sia estrinsecato, al momento della formazione del contratto paziente-medico, anche
un valido "consenso informato".
Quindi, dottrina e giurisprudenza hanno veicolato, nell'ultimo lustro, da un iniziale
concetto di ininfluenza del "consenso informato" dinanzi ad una prestazione ineccepibile ad
un altro, ben più marcato, di responsabilità "a prescindere" in capo al sanitario che, pur
compiendo una prestazione esatta, ha omesso di comunicare al proprio paziente modalità e
rischi della prestazione che andava ad eseguire.
In effetti, il consenso si riferisce ad eventi lesivi che trovano la loro causa nel fatto che
il medico non ha adempiuto l'obbligo di informare correttamente il paziente: la fonte della responsabilità
del medico non è costituito dall'evento dannoso in sé, ma dalla mancata preventiva comunicazione
dell'eventualità dell'evento dannoso; quando il paziente lamenta il danno derivante dal mancato
esercizio del "consenso informato", infatti, non sostiene che il medico non ha adempiuto correttamente
la prestazione sanitaria, ma afferma che, se avesse conosciuto i rischi connessi all'intervento, non
lo avrebbe autorizzato.
Viceversa, il diritto alla prestazione esatta, opera sul diverso piano del risultato che il paziente
intende conseguire, sia stato esso correttamente informato o no: in questo caso, il paziente si duole
della circostanza che ha subito un danno per il solo fatto che la prestazione sanitaria non è stata
correttamente resa.
V'è, infatti, da evidenziare che il "consenso informato" non ha nulla a che vedere con gli obblighi
del medico di osservare il codice deontologico: anche se il questo impone al medico l'obbligo di una
corretta informazione al paziente circa il suo intervento, non è l'inosservanza della norma deontologica
quella che può essere invocata direttamente dal paziente, perché non è certamente questi il destinatario
del codice deontologico; il paziente è tutelato solo dal contratto di prestazione sanitaria,
nell'ambito del quale egli ha diritto di ricevere le informazioni dovute. Ovviamente per
prestazione sanitaria, la dottrina fa riferimento esplicito al sinallagma della prestazione. Cioè al
valore intrinseco del rapporto contrattuale paziente-medico.
L'acquisizione del consenso non limita assolutamente la responsabilità del sanitario per inosservanza
delle "leges artis".
La manifestazione di volontà del paziente costituisce - ed è - accettazione consapevole del rischio insito
in ogni pratica invasiva, anche magistralmente eseguita, e delle inevitabili conseguenze negative, e
non dichiarazione di esonero da responsabilità colposa.
Non a caso, tale clausola subisce la censura della normativa contenuta nell'art. 1229 del codice
civile vigente che dichiara automaticamente nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione
di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione
di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico.
La diversità funzionale tra responsabilità per omessa o insufficiente informazione e responsabilità
colposa nell'esercizio della prestazione professionale si riflette non solo nell'inefficacia del consenso
come limite alla responsabilità per violazione di regole esecutive del trattamento, ma anche nel consolidato
orientamento dottrinale e giurisprudenziale che pone a carico del sanitario la responsabilità civile per
le lesioni conseguenti all'intervento, anche nel caso in cui questo sia stato correttamente eseguito.
Ciò posto, occorre rilevare che la carenza dell'informazione vizia il consenso rendendolo invalido, quindi
non produttivo di alcun effetto, come se non fosse stato prestato: il consenso c'è o non c'è, tertium non
datur.
L'assenza di un valido consenso rende giuridicamente rilevante (ed in senso negativo) il trattamento
medico-chirurgico, sia esso ineccepibile, sia esso carente. La sola omissione del consenso vizia
incontrovertibilmente la prestazione, il facere del medico. Ripeto, indipendentemente dalla bontà della
sua prestazione.
Nella sostanza, come la Suprema Corte di Cassazione ha sancito (v. sentenza n. 2044 del 23.2.2000) è proprio
la mancata informazione che costituisce "il nucleo della colpa del medico imputato nell'inosservanza
del dovere di completa informazione-prescrizione sui limiti del ricorso alla terapia (...)".
In questo senso la Suprema Corte, con la più recente sentenza n. 5444/2006, ha ammonito che "...l'obbligo del
"consenso informato" è a carico del sanitario che, una volta richiesto dal paziente
dell'esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia di accogliere la richiesta
e di darvi corso, a nulla rilevando che la richiesta del paziente discenda da una prescrizione
di altro sanitario".
Per la Corte, quindi, è oggi obbligo dello specialista di una struttura sanitaria che esegue
una terapia spiegare esattamente al paziente quali potrebbero essere gli effetti collaterali
dell'intervento, quale esso sia. Non facendolo, viola l'obbligo del "consenso informato".
Questa norma vale, appunto, anche nel caso in cui il trattamento sia stato correttamente eseguito.
Quindi, secondo le attuali Dottrina e Giurisprudenza, per il configurarsi della violazione del
"consenso informato", non è necessaria la colpa della èquipe ospedaliera nello svolgimento della terapia
stessa, stante che "la responsabilità del sanitario
(e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del "consenso informato"
discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell'obbligo di informazione circa le
prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione
di un aggravamento delle sue condizioni di salute, mentre è del tutto indifferente se il trattamento
sia stato eseguito correttamente o meno".
Il Tribunale di Milano, con sentenza 29 marzo 2005 ha rilevato che "La mancata richiesta del
"consenso informato" deve valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione
del diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione...".
La sfera civilistica della responsabilità del medico che non si sia procurato, da parte del cliente,
il "consenso informato" è certamente quella contrattuale. Ciò comporta che il medico deve fornire la
prova dell'avvenuta prestazione del "consenso informato".
In questo univoco indirizzo si deve leggere la recente sentenza del Tribunale di Monza, che,
in materia, rafforza il consolidato convincimento tracciato dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo
il quale "nessun rilievo ha un intervento medico riuscito in presenza di una omessa informazione".
Il pronunciamento può apparire, da una prima disamina, eccessivamente punitivo. Ma così non è del tutto.
Basta soffermarsi un momento a riflettere sul costante indirizzo giurisprudenziale per prendere atto che
la violazione dell'obbligo del consenso afferisce ad un mero rapporto contrattuale
(tant'è che il termine di prescrizione dell'azione è di dieci anni - a differenza di quello per il
risarcimento "aquiliano" che è di cinque anni) e che l'omissione è punibile "in re ipsa", cioè è punibile
la sola omissione indipendentemente dall'"evento-prestazione". Il buon esito, o meno, di quest'ultima
è indifferente ai fini della responsabilità che sussiste, in capo al sanitario, per il solo fatto della
mancata comunicazione, ovvero dell'omissione o della non corretta comunicazione.
Quindi la sentenza del Tribunale di Monza, in stretta aderenza a quella succitata emessa, nel marzo 2005,
dal Tribunale di Milano e soprattutto a quelle, pure menzionate, della S.C., non conduce a ben
sperare su nuovi più sereni orizzonti per la classe medica, sempre più tenuta a doversi allineare,
in assenza di chiara legislazione in materia, a quei concetti burocratici che l'attuale sistema
ipergarantista ha sposato.
In conclusione, per il medico "mala tempora currunt".
Paolo Vinci
Patrocinante in Cassazione
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