Perché, in tema di responsabilità professionale, (e quindi di possibile errore che ne rappresenta l'epifenomeno…)
prendere in considerazione l'ambito della chirurgia, nella specifica indicazione oncologica?
La questione si pone perché, tra le discipline specialistiche, la chirurgia fa registrare i dati percentualmente
più rilevanti nella classifica dei presenti errori; e perché, contestualmente, l'oncologia (che spesso si
avvale dello strumento chirurgico), sebbene area ultima nata, comincia a scalare la vetta della classifica
del contenzioso, in maniera progressiva e preoccupante.
In chirurgia oncologica, compresa quella cutanea, la gran parte della casistica si riferisce a diagnosi
tardive per inosservanza di elementari misure di precauzioni o per sottovalutazione o mancato riconoscimento
dei sintomi e dei segni. Significativi i contenziosi per i danni attribuiti a relative incongruità del
trattamento chirurgico, "a posteriori" valutate. Nel senso che: se una minore adeguatezza exeretica espone,
con più probabilità, alla recidiva della patologia, una maggiore aggressività o radicalità procura danni
psico-fisici non giustificati (quindi una nuova patologia!).
Per analizzare e comprendere il problema specifico, alcune brevi considerazioni di ordine generale sono
necessarie. La responsabilità professionale del medico deriva dall'adempimento di un'applicazione contrattuale,
intensa questa come obbligo di mezzi (nel senso di impegno, da parte del sanitario, di prestare la sua opera
con perizia, prudenza, diligenza…), e non come obbligo di risultati (come per esempio la prevenzione di un
evento mortale, il miglioramento dello stato di salute, la guarigione…). L'articolo 223 c.c., inoltre, cosi
recita: "se la prestazione medica implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore
d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave". Questi principi generali, sempre
validi nella quasi totalità delle prestazioni sanitarie, devono essere ribaditi soprattutto in campo oncologico!
Infatti, è facile riconoscere che, proprio in oncologia, più spesso che altrove, il medico è posto di fronte
a casi complessi e mal definibili, sia dal punto di vista della terapia, sia dal punto di vista dell'informazione.
E, in special modo in oncologia, questi quattro aspetti sono particolarmente concatenati e interdipendenti.
Esaminiamoli brevemente:
ASPETTO DIAGNOSTICO
Uno degli obbiettivi dell'oncologia è quello di scoprire il cancro quanto più precocemente possibile, perché
nelle fasi iniziali, i procedimenti terapeutici sono più semplici, meno traumatici, verosimilmente più radicali.
Tuttavia, in pochi casi, la riconoscibilità del tumore è difficile (se non addirittura impossibile) almeno nella
fase d'esordio. Infatti, i sintomi e i segni chimici possono essere generici, aspecifici, addirittura assenti,
e la diagnostica strumentale può essere in grado di "vedere" solo certe dimensioni in su, con percentuali di
falsi positivi e falsi negativi. Anche la diagnostica isto-patologia, fondamentalmente ai fini del giudizio
definito sulla natura del tumore (e quindi dell'indicazione terapeutica più idonea), non infrequentemente si
trova di fronte a obbiettive difficoltà nel determinare la tipologia, il grado, lo stadio, il tessuto d'origine…
Si considerino ancora la evenienza dei casi cosiddetti "falsi negativi" o "falsi positivi", pur in isto-patologia.
E non è tutto!... Durante un intervento chirurgico programmato per patologia neoplastica (…ma anche per altre patologie!)
spesso ci si imbatte in situazioni amatomo-patologiche di novità rispetto alla diagnostica pre-operatoria;
pertanto, la pianificazione del tipo di intervento deve essere modificata.
Ora, mascroscopiamente, è difficile distinguere un processo "indurativo" benigno da un processo "sostitutivo" (localizzato, contiguo o a distanza) neoplastico.
Il ricorso all'isto-patologia intraoperatoria quasi sempre è in grado di dirimere la diagnosi, ma vi sono
situazioni (urgenza, inadeguatezza strumentale e/o bioetica, difficoltà di interpretazione…) in cui il dubbio
rimane.
La conseguenza è importante; perché una ablazione economica può non risultare radicale, e non ablazione
allargata può comportare un danno anatomo-funzionale non giustificato.
ASPETTO TERAPEUTICO
Non esiste, ad oggi, per la grave parte dei tumori, una terapia curativa (nel senso di: causale sistematica,
radicale e definitiva nel tempo). Questa, infatti, per essere tale, deve sostanzialmente agire recuperando
l'organismo "in toto", ad un processo autodifensivo, ragionevole su base genetico-immunitaria, nei confronti
della fenomenologia neoplastica. In sostanza, il tumore è una patologia di organismo che insorge per un input
aberrante genetico e si sviluppa per l'insufficienza di un naturale processo di difesa.
Nelle more del "gold standar" terapeutico, la chirurgia, associata o meno ad altre tipologie di trattamento,
ha, allo stato attuale della conoscenze, la sua valida e insostituibile applicazione in oncologia.
In particolare, la chirurgia è curativa quando asporta radicalmente (N.B. i criteri del estensione dell'exeresi
non sono assolutizzabili!) un focolaio neoplastico sicuramente "confinato". In altre circostanze, la chirurgia
si rende necessaria, pur non essendo oncologicamente curativa, per correggere una complicanza da neoplasia
o per "citoridurre" uno "spread" e consentire una migliore efficacia degli altri trattamenti (chemioterapia,
radioterapia..).
ASPETTO PROGNOSTICO
Ancora ad oggi, è certa la gravità della prognosi del paziente neoplastico. L'evoluzione di un tumore non
soggiace a regole scientifiche. Vi sono casi in cui la stessa tipologia di tumore, in pazienti diversi, si
comporta in maniera differente o capricciosa.
Ho registrato tumori al primo stadio con evoluzione inaspettatamente fatale e ho visto tumori al quarto stadio
con evoluzione altrettanto inaspettatamente favorevole. E questo, indipendentemente dalla ortodossia più
aggiornata e puntuale del trattamento terapeutico nei vari stadi.
ASPETTO DELL'INFORMAZIONE
Ogni prestazione medica, per essere lecita, necessita di una adeguata informazione preventiva del paziente ed
è legittimata dal conseguente valido consenso dello stesso. In ambito oncologico, l'informazione corretta assume
una luce del tutto problematica.
Il medico deve essere in grado di valutare quali siano le personalità e la reattività del paziente così da
moderare l'impatto emotivo e il "trauma" psicologico che può procurare la comunicazione di una condizione a
prognosi incerta e che talora richiede trattamenti invalidanti.
Non è semplice modulare e personalizzare l'informazione. Se per taluni pazienti, considerati psicologicamente
forti (e sono rari!), la verità può traumatizzante, per altri la conoscenza della malattia influirà sicuramente
(attraverso meccanismi psichici) in senso sfavorevole sull'evoluzione della patologia e sull'adeguatezza della
cura. Detto questo, personalmente sono convinto che in chirurgia oncologica la comunicazione della condizione
clinica e del suo trattamento non è quasi mai puntuale (sia per motivi deontologici, sia culturali, sia tecnici)
così che il consenso informato del paziente può non essere liberatorio…
Orbene, quanto detto delinea, di massima, i fondamentali tecnico-culturali della materia oggetto in tutta la
loro complessità. Ne deriva che la chirurgia oncologica (che è bene continuare a chiamare arte e non scienza!)
si caratterizza per connotazione di fallibilità, di evoluzione, di eclettismo, di indefinitezza dei nessi
causali, e continua a dibattersi tra "domanda" di garanzia e "offerta" di possibilità di risultato.
Quali sono le cause dell'attuale considerevole espansione di procedimento giudiziari che sta provocando
un continuo aumento di costi assicurativi per richieste di risarcimenti così onerose da aver reso il rischio
professionale difficile o addirittura impossibile da sottoscrivere da parte delle Compagnie di Assicurazioni.
Questo interrogativo è oggetto di studi e di ricerche.
Si possono ipotizzare più situazioni, quali:
- un maggiore interventismo diagnostico e terapeutico mirato ancor più alla preservazione
(se non al miglioramento!) dello stato di salute che non alla correzione della malattia;
- maggiori aspettative del paziente da parte dell'opera dei medici che inopportunamente, assicurano
offerte positive e assenza di rischi;
- abuso del "diritto" individuale;
- maggiore litigiosità e maggiore burocratizzazione nel rapporto medico-paziente, quando svilito nel
senso della fiducia reciproca;
- Carenza legislativa che, tuttavia, (bisogna ammetterlo!) è riveniente dalla "particolarità" dell'attività
professionale medica se inquadrata (come è giusto che sia inquadrata!) nell'ambito
delle prestazioni intellettuali.
Ecco, allora, che l'atto medico (di per sé particolare, fallibile e rischioso) occupandosi di un bene
particolare, che è la salute, tutelato dalla Costituzione della Repubblica e impregnato di intrinseca emotività,
quando non abbia garantito l'obbligazione del risultato viene considerato errore. E l'errore medico che
configura una colpa rientra negli aspetti normativi che determinano una responsabilità professionale che può
trovare collaborazione sia nell'ambito penale che in quello civile.
Quali sono i rimedi? È ragionevole indicare tre percorsi fondamentali entro cui muoversi per proporre
ed elaborare soluzioni rapide al problema della responsabilità professionale, la cui portata, oggi, è
tale da pregiudicare la stessa attività medica.
- Percorso Legislativo - La politica, nella sanità, non può eludere il problema; d'altra
parte i rappresentanti delle associazioni di categoria (ordine dei medici) devono finalmente riappropriarsi
delle funzioni relazionali di controllo, di promozione e di garanzia.
Queste proposte:
- Rimodulazione delle lesioni colpose (oltretutto anche dalla Magistratura si ergono proposte in tal senso);
- Assicurazione obbligatoria per i medici, negoziando il premio e la copertura del rischio
tra Stato (o Regioni) e compagnie assicurative;
- Detrazione fiscale dei costi assicurativi dei medici dalla dichiarazione dei redditi;
- Riconoscimento, (a conclusione giudiziaria del contenzioso), anche per i medici, della condizione di
danno morale, socio-professionale ed economico subiti, con relativa indennità di risarcimento.
- Percorso Giuridico - Considerate le premesse tecnico-culturali prima esposte, concernenti
nello specifico la problematiche della chirurgia oncologica, emerge che l'identificazione di una presunta
"malpractice " non è sempre agevole e non può affrontarsi semplicisticamente giudicando in bade all'esito
sfavorevole di un caso "che certo esercita una notevole e umanamente comprensibile suggestione". In realtà,
la responsabilità del medico sussiste in quanto l'errore sia riconducibile a un comportamento (omissivo o
commissivo) inadeguato e da tale errore derivi casualmente un danno subito del paziente. La verifica della
sussistenza di tale rapporto causale, soprattutto in chirurgia oncologica è molto difficile e il ricorso al
criterio di probabilità deve essere effettuato con il massimo rigore metodologico. In questa branca della
medicina, infatti, il ricorrere a… "un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica specie quando
non risulti la preesistenza, con concomitanza o sopravvenienza di altri fattori idonei a provocare l'evento
medesimo" (sentenza Cass.Pen. 1982 n° 3013) può essere fonte di errore giudiziari per la semplice ragione che
tempestività di diagnosi e adeguatezza di trattamento nella condizione neoplastica sono praticamente
identificabili.
Il concetto di causalità và quindi, per il settore, ridefinito, dal momento che non abbiamo, ad oggi,
nessun criterio per distinguere le associazioni "accidentali" da quelle propriamente casuali.
- Percorso Deontologico - Il rimedio pregiudiziale in assoluto, dobbiamo ri-cercarlo in
noi stessi, nel nostro comportamento, nei nostri rapporti, nella nostra categoria di medici… Invocare
l'intervento del legislatore, della magistratura, dei giuristi (che pure si sono dimostrati e si dimostrano
più saggi di noi nel gestire il "nostro" problema) sarà utile solo nella misura in cui l'Ethos dei medici
si fonderà sulle premesse Ippocratiche.
Infatti:
- quando da un rapporto medico-paziente di natura morale (fondato sulla fiducia reciproca) si passa
ad un rapporto di natura giuridica (fondato su mera burocrazia );
- quando dalla medicina come arte, si passa all'industria e alla mercificazione della stessa;
- quando dalla competizione (che è sano procedimento di scoperta) si passa alla concorrenza (che invece
è procedimento di sopraffazione);
- quando dall'autonomia di forze e di giudizio si passa alla subalternità;
- quando il rampantismo del nuovo scredita la sapienza della maturità;
- quando dalla medicina legale si passa alla giurisprudenza medica…
è molto facile che insorgano meccanismi di allarme e di rivalsa che distorcono le relazioni e innescano
reazioni indesiderate. E allora aveva ragione quell'avvocato (difensore di un medico a un processo
favorevolmente concluso) che alla fine della sua arringa diceva: "si homo homini lupus, medicus medico
lupissimus"…!
Dott. Giovanni Marcucci - medico chirurgo
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